Scienza: Per i vaccinati la COVID-19 è un’altra cosa

Attualità

Nelle ultime settimane milioni di persone in Italia hanno avuto un’infezione da coronavirus, in molti casi non se ne sono accorte o hanno avuto sintomi molto lievi, specialmente se si erano vaccinate da poco o avevano ricevuto la dose di richiamo. Per i vaccinati, la COVID-19 di oggi è molto diversa e in parte meno preoccupante rispetto alla malattia di un paio di anni fa.

Il cambiamento, piuttosto marcato, è stato reso possibile appunto dai vaccini e dalla diffusione della variante omicron, estremamente contagiosa ma con una minore capacità di causare sintomi gravi nella popolazione vaccinata. Di COVID-19 si continua comunque a morire e alcuni ospedali sono in affanno per l’alto numero di ricoveri, soprattutto di persone non vaccinate.

Rischio e protezione
I dati forniti periodicamente dall’Istituto superiore di sanità (ISS) confermano che i vaccini faticano a prevenire l’infezione, ma offrono una forte protezione dalla malattia. Ciò fa sì che il rischio di essere ricoverati per COVID-19 in ospedale sia 12,6 volte superiore per un non vaccinato rispetto a una persona che abbia completato il ciclo vaccinale al massimo da quattro mesi; il rischio è invece di 19,6 volte superiore per chi non è vaccinato rispetto a chi lo è e ha ricevuto anche la dose di richiamo.

Il rischio relativo per i non vaccinati di essere ricoverati in terapia intensiva è 23,1 volte più alto rispetto ai completamente vaccinati da meno di quattro mesi, e di 25,7 volte rispetto ai vaccinati con dose di richiamo. I vaccini mostrano inoltre di mantenere un’alta protezione anche tra chi li ha ricevuti da più di quattro mesi, con un rischio di ricovero in terapia intensiva di 15,4 volte inferiore rispetto ai non vaccinati.

Per quanto riguarda i decessi, il rischio relativo per le persone non vaccinate è di 11,3 volte superiore rispetto a chi ha terminato il ciclo vaccinale da meno di quattro mesi, e di 26,2 volte superiore rispetto a chi ha ricevuto il richiamo.

I dati sui tassi di ricovero in ospedale, nei reparti di terapia intensiva e di mortalità per 100mila persone indicano chiaramente quanto sia più alto il rischio per chi non è vaccinato.

In generale, in questa fase la COVID-19 appare sotto vari aspetti meno preoccupante rispetto a quanto potesse apparire un paio di anni fa. Da un lato la variante omicron sembra causare sintomi più lievi se confrontata con precedenti varianti come la delta, dall’altro i vaccini stanno dando un contributo enorme nel limitare i casi di malattia grave, che come abbiamo visto si possono comunque verificare (ci sono molte variabili e siamo fatti tutti diversamente).

Oggi, nella maggior parte dei casi, per i vaccinati ammalarsi di COVID-19 equivale ad avere i sintomi di un raffreddore o di una lieve influenza. Vengono di solito segnalati naso che cola e congestione nasale, mal di gola, mal di testa, talvolta tosse e febbre. La fase più acuta dura un paio di giorni e di solito in meno di una settimana i sintomi svaniscono senza lasciare conseguenze.

COVID-19, influenza, raffreddore
Grazie soprattutto ai vaccini, l’esperienza per la maggior parte delle persone è quella di una malattia fastidiosa e simile a quelle tipiche della stagione fredda, ma questo non significa che ora la COVID-19 sia un’influenza, come qualcuno ha suggerito in questi giorni.

È una malattia con un tasso di letalità più alto dell’influenza, che si diffonde molto più rapidamente e verso la quale la popolazione non ha ancora sviluppato difese immunitarie adeguate, essendo stata esposta al coronavirus che la causa da appena due anni e parzialmente (ci sono ancora molte persone che non hanno né contratto il coronavirus né hanno ricevuto il vaccino).

Avendoci a che fare da molto più tempo rispetto alla COVID-19, tendiamo a vedere l’influenza come una malattia poco grave e che passa dopo qualche giorno senza lasciare particolari strascichi. In realtà, l’influenza è da sempre la causa di numerosi decessi ogni anno, con ondate che si rivelano più o meno violente a seconda dei virus influenzali in circolazione e della capacità dei vaccini antinfluenzali – che devono essere ricalibrati ogni anno – di contrastare la loro diffusione.

Stimare gli effetti dell’influenza sulla popolazione è difficile, perché per motivi pratici i casi non vengono tracciati singolarmente come si sta cercando di fare da un paio di anni con la COVID-19, e a ragione considerata la sua maggiore pericolosità. Nella maggior parte dei paesi, compresa l’Italia, gli andamenti sono valutati su base statistica, grazie alle segnalazioni di un campione di medici di famiglia e degli ospedali sul territorio nazionale.

Uno studio pubblicato nell’autunno del 2019 ha preso in considerazione le stagioni influenzali dal 2013/2014 al 2016/2017. Il gruppo di ricerca ha stimato che in quel periodo siano morte almeno 68mila persone a causa dell’influenza stagionale, con un eccesso di mortalità (cioè più morti di quanto ci si attendeva in base agli andamenti precedenti) superiore rispetto a quello riscontrato in diversi altri paesi europei.

L’alto numero di decessi è dovuto all’età mediana piuttosto alta in Italia, con molte persone anziane con maggiori fattori di rischio nello sviluppare complicazioni dopo essersi ammalate di influenza. Sugli andamenti influiscono inoltre la copertura vaccinale, relativamente bassa in Italia anche tra i più anziani, e l’efficacia stessa dei vaccini, che varia sensibilmente di anno in anno a seconda dei virus influenzali in circolazione che devono essere previsti in anticipo, proprio per avere il tempo di preparare i vaccini.

A oggi non ci sono nemmeno elementi chiari per sostenere che la COVID-19 stia diventando un raffreddore, come hanno sostenuto alcuni.

La maggior parte delle persone che scopre di essere positiva e ha sintomi lievi, paragonabili a quelli di un raffreddore, è vaccinata e probabilmente ha in corso un’infezione da variante omicron, meno aggressiva rispetto ad altre. È vero che altri tipi di coronavirus sono responsabili del comune raffreddore, ma questo non significa che lo sia anche il SARS-CoV-2. Altri coronavirus causano malattie respiratorie rischiose come la SARS e la MERS, la cui circolazione negli anni passati era stata contenuta meglio grazie alle loro caratteristiche, diverse da quelle di altri coronavirus.

Martedì 11 gennaio, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha invitato a non considerare la COVID-19 come una malattia paragonabile all’influenza o al raffreddore, un tema molto discusso nelle ultime settimane da esperti, governi e istituzioni sanitarie. Secondo l’OMS è infatti ancora presto per determinare se la pandemia stia entrando in una nuova fase, che potrebbe essere il preludio al passaggio verso una forma endemica del coronavirus SARS-COV-2, cioè a una sua permanenza tra la popolazione con focolai sporadici e più contenuti rispetto all’attuale alto numero di contagi.



(Università del Maryland)
Un trapianto di cuore da maiale a paziente umano è stato eseguito per la prima volta con successo negli Stati Uniti, con una tecnica che in futuro potrebbe consentire di salvare la vita a migliaia di persone in attesa di ricevere nuovi organi. Il cuore suino, geneticamente modificato per ridurre il rischio di rigetto, è stato ricevuto da un paziente di 57 anni in un ospedale di Baltimora, negli Stati Uniti. L’operazione è avvenuta venerdì 7 gennaio e da allora il paziente è in fase di recupero ed è temporaneamente assistito da alcuni macchinari, che saranno a breve scollegati.

Bartley Griffith, il responsabile del programma trapianti del Centro medico dell’Università del Maryland, ha detto che il nuovo cuore «crea il battito e la pressione sanguigna, è il suo cuore. Sta funzionando e sembra tutto normale. Siamo entusiasti, ma non sappiamo che cosa potrà accadere nei prossimi giorni. È una cosa che non era mai stata tentata prima».

Da tempo numerosi gruppi di ricerca sono al lavoro per perfezionare la tecnica degli xenotrapianti, cioè i trapianti di organi da altre specie da innestare negli esseri umani. La tecnica è ritenuta promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori di organi umani per effettuare i trapianti.

Ogni anno migliaia di persone con gravi condizioni di salute vengono inserite nelle liste di attesa per ricevere un cuore, un rene, un fegato o altri organi, ma molte di queste muoiono prima che arrivi il loro turno. Gli xenotrapianti come quello realizzato a Baltimora potrebbero ridurre il problema, facendo aumentare sensibilmente la disponibilità di organi.

Il cuore proveniente da un maiale geneticamente modificato era stato preparato da Revivicor, una società che si occupa dello sviluppo e della sperimentazione di soluzioni di medicina rigenerativa. Le modifiche hanno interessato l’inattivazione di alcuni geni che portano alla produzione di molecole che vengono riconosciute come estranee dal sistema immunitario, e che sono quindi alla base del rigetto, il processo in cui l’organismo non riconosce come proprio il nuovo organo e lo attacca ritenendolo una minaccia.

Il gruppo di ricerca di Revivicor ha inoltre inibito un altro gene per evitare che il cuore continui a crescere di dimensione, oltre a quella necessaria per funzionare all’interno del ricevente. Al cuore suino sono stati poi aggiunti alcuni geni umani per eludere la risposta immunitaria, insieme a un nuovo trattamento sperimentale per ridurre il rischio di rigetto.


Il paziente che ha ricevuto il cuore suino aveva deciso di sottoporsi all’intervento sperimentale perché rimasto senza alternative: era stato sottoposto ad altri trattamenti senza successo ed era troppo malato per ricevere un cuore da un donatore umano. Dopo l’operazione, è rimasto collegato a una macchina cuore-polmone che provvede al mantenimento della corretta ossigenazione sanguigna.

Non è insolito che i neotrapiantati di cuore rimangano per diversi giorni collegati a una macchina di questo tipo, in attesa che siano effettuate tutte le verifiche sull’esito dell’intervento. Il nuovo cuore sta comunque facendo il proprio dovere e ha superato i primi due giorni dopo l’impianto, solitamente i più a rischio per l’insorgenza di un’eventuale forte reazione immunitaria.

Gli xenotrapianti non sono di per sé una novità, ma finora avevano interessato operazioni di minore entità. Le valvole cardiache suine sono per esempio impiegate abitualmente nei pazienti con particolari problemi cardiaci, così come i diabetici ricevono trattamenti sviluppati nei maiali. La pelle dei suini in alcuni casi viene utilizzata come soluzione temporanea per chi ha gravi ustioni. Negli anni Sessanta alcuni gruppi di ricerca avevano sperimentato il trapianto di reni da scimpanzé a esseri umani, ma senza grande successo. Nel 1983 era stato anche sperimentato un trapianto di cuore da un babbuino a una bambina, che era però morta circa tre settimane dopo l’operazione.

Negli ultimi anni le nuove tecniche per intervenire con modifiche genetiche, in modo da ridurre sensibilmente il rischio di rigetto, hanno aperto grandi opportunità per gli xenotrapianti. La tecnica impiegata a Baltimora era stata sperimentata in precedenza su alcuni babbuini, che avevano ricevuto cuori suini geneticamente modificati. L’impiego delle medesime tecniche sugli esseri umani non è ancora autorizzato in molti paesi, ma in casi particolari e a fini di ricerca le autorità sanitarie possono concedere autorizzazioni di emergenza, come avvenuto negli Stati Uniti.



Da quando sono disponibili i vaccini contro il coronavirus, molti si chiedono se sia rischioso o inutile vaccinarsi mentre si è positivi. È una domanda che nelle ultime settimane si sono fatte moltissime persone, perché la variante omicron è altamente contagiosa, ma in molti casi comporta sintomi talmente lievi da far passare inosservato il contagio. Ci sono quindi migliaia di persone che diventano positive al coronavirus senza saperlo, salvo non facciano un test per qualche altro motivo, e che si sottopongono alla vaccinazione (soprattutto per il richiamo) mentre hanno un’infezione in corso.

In Italia quasi il 79 per cento della popolazione ha completato il ciclo vaccinale e circa il 40 per cento ha ricevuto la dose di richiamo, quindi ci sono milioni di persone che si devono ancora vaccinare, una parte delle quali non avrà alternative considerato il nuovo obbligo vaccinale deciso dal governo per chi ha più di 50 anni. Vista la grande circolazione di omicron, molte di queste si stanno vaccinando e si vaccineranno mentre sono inconsapevolmente positive, senza correre comunque particolari rischi.

Tra le linee guida fornite dal ministero della Salute, dall’Istituto superiore di sanità e dall’Agenzia italiana del farmaco, non si trovano molte informazioni sulla vaccinazione delle persone con un’infezione da coronavirus in corso. Le indicazioni delle autorità sanitarie in altri paesi sono altrettanto generiche, anche se forniscono qualche dettaglio in più.

I Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC), una delle principali istituzioni sanitarie degli Stati Uniti, sconsigliano di sottoporsi alla vaccinazione se si hanno sintomi da COVID-19 confermati da un test, quindi se il coronavirus ha portato alla malattia vera e propria e non solamente all’infezione (essere infetti non significa automaticamente essere malati). Tecnicamente lo stesso vale anche in Italia, semplicemente perché se si è malati di COVID-19 si deve rimanere in isolamento, segnalare la propria condizione e attendere la guarigione con la scomparsa dei sintomi.

L’indicazione di non sottoporsi alla vaccinazione da malati ha qualche aspetto di precauzione per la singola persona ammalata, ma soprattutto riguarda la necessità di tutelare tutte le altre persone nei centri vaccinali, sia che lavorino per somministrare il vaccino sia che a loro volta siano lì per riceverlo. È per questo motivo che prima di accedere ai centri vaccinali viene misurata la temperatura. I medici chiedono inoltre se si abbiano particolari sintomi prima di procedere con la somministrazione del vaccino.

Le cose da sapere sul coronavirus
Nel caso in cui i sintomi siano assenti è molto più difficile accorgersi di essere positivi, ma non ci sono particolari rischi nel ricevere il vaccino da infetti inconsapevoli, specialmente nel caso della dose di richiamo. È peraltro più probabile che siano le persone già completamente vaccinate – e che quindi devono sottoporsi al richiamo – a non sviluppare sintomi in seguito a un’infezione, rispetto a chi non è ancora vaccinato e ha quindi un maggior rischio di ammalarsi di COVID-19 dopo il contagio. Il sistema immunitario dei completamente vaccinati ha imparato a riconoscere e contrastare il coronavirus proprio grazie al vaccino, di conseguenza fa ridurre il rischio di sviluppare forme gravi e in alcuni casi letali della malattia.

Ricevere il vaccino in una condizione di positivo inconsapevole non è di per sé rischioso, ed essere positivi non sembra interferire più di tanto nello stimolare la risposta immunitaria grazie alla quale si formerà una migliore memoria contro il coronavirus. I meccanismi attraverso cui si costruiscono queste difese sono differenti nel caso di un’infezione o della vaccinazione, ma ciò non implica che si diventi meno protetti. Molto dipende comunque da come è fatto ciascuno, dalle proprie condizioni di salute in generale e da particolari predisposizioni.

È possibile che chi rientra in questa casistica sviluppi, dopo il vaccino, qualche sintomo di malessere in più, e trovi un poco più fastidiosi gli eventuali effetti avversi come febbre, mal di testa, dolore nel punto dell’iniezione e senso di spossatezza. Sono comunque sintomi transitori che passano velocemente nella maggior parte dei casi.

Di recente il professore di microbiologia Guido Rasi, consulente per la campagna vaccinale del commissario Francesco Paolo Figliuolo, ha confermato in un’intervista che non c’è motivo di preoccuparsi più di tanto per chi si presenta in un centro vaccinale inconsapevolmente positivo:

Se è sintomatico ha un’infezione in corso ed è meglio che rimandi, se è positivo asintomatico vada e se in dubbio in mancanza di sintomi pure, senza fare inutili tamponi.

Dal momento della somministrazione, il sistema immunitario impiega alcuni giorni prima di sviluppare le difese e iniziare a maturare una memoria immunitaria, che potrà poi impiegare in futuro nel caso di un’infezione da coronavirus vera e propria. Quando si viene vaccinati per la prima volta non si è quindi immediatamente protetti e può accadere che ci si ammali di COVID-19 se si aveva già un’infezione in corso o nel caso in cui si venga contagiati prima di avere sviluppato le difese immunitarie grazie al vaccino.

I rischi che si verifichi questa circostanza con il richiamo sono più bassi, perché si può già contare sulla protezione del precedente ciclo vaccinale, per quanto questa tenda a ridursi col tempo. I richiami si stano rivelando molto efficaci nel contrastare la variante omicron, riducendo sensibilmente i rischi di sviluppare forme gravi di COVID-19 che rendono necessari ricoveri in ospedale e che, in alcuni casi, possono causare la morte.



A dicembre di quest’anno la rivista scientifica Schizophrenia Research ha pubblicato i risultati di un questionario sottoposto a più di un migliaio di persone per indagare su quanto sia percepita l’esigenza di cambiare nome alla schizofrenia per superare l’immaginario stigmatizzante che la accompagna. Il questionario ha ravvivato un dibattito già esistente: c’è chi ritiene che cambiare il nome alla malattia possa aiutare a superare i pregiudizi, e chi pensa che sia più utile investire in cure e terapie e fare un lavoro graduale di educazione.

Il termine “schizofrenia” deriva dal greco – schízein (scissione) e phrén (mente) – ed è tradotto in modo simile in tantissime lingue. Fu coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1908, per indicare una serie di sintomi accomunati dalla perdita di associazione tra funzioni psichiche come pensiero, memoria e affettività, che portano a disturbi nella strutturazione del pensiero, della dinamica affettiva e nel rapporto con l’ambiente circostante. Il termine sostituiva ed estendeva il concetto di dementia precox, secondo Bleuler non adatto a identificare le caratteristiche principali e più importanti del disturbo in questione, legate appunto alla dissociazione.

Le prime attestazioni dei sintomi successivamente associati al termine “schizofrenia” risalgono a migliaia di anni fa, e la definizione che ne diede la medicina moderna portò a classificarne le tipologie e a continuare a studiarle per sviluppare terapie. A livello culturale, però, il concetto di “schizofrenia” si è progressivamente legato a una serie di pregiudizi e immagini stigmatizzanti, fino a diventare, nel linguaggio comune, anche una forma di insulto. Come ha detto una paziente recentemente intervistata dal New York Times, «il termine schizofrenia non è evoluto allo stesso modo delle terapie».

Tra i pregiudizi più radicati nei confronti delle persone affette da schizofrenia c’è quello secondo cui sarebbero persone violente: si tende a pensare che chi soffre di schizofrenia sia un pericolo per gli altri, possa diventare improvvisamente e inaspettatamente manesco e vada per questo isolato e separato dalle altre persone. Lo si vede anche nei media, dice un’analisi al riguardo, sui quali le persone affette da schizofrenia vengono citate soprattutto come aggressori, quando è molto più frequente che siano loro stesse a subire violenza. Gli stessi comportamenti violenti, poi, hanno spesso cause eterogenee, e il modo in cui si manifesta il disturbo mentale resta molto diversificato e variabile da persona a persona.

Le conseguenze di questi pregiudizi hanno spesso un impatto diretto sulla salute mentale dei pazienti. Per questo da anni e in più paesi diverse associazioni di pazienti chiedono che venga cambiato il nome del disturbo, secondo loro irrimediabilmente associato a una connotazione negativa e ingiustificata. Propongono che venga scelta una definizione più neutra e descrittiva, come tra l’altro suggeriscono alcune linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità rispetto alle malattie in generale. In alcuni paesi asiatici è stato fatto: il Giappone è stato il primo, e nel 1997 ha chiamato la schizofrenia “disturbo di integrazione”, ma lo hanno fatto anche Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong, con soluzioni simili.

Negli Stati Uniti, uno dei gruppi di pazienti che chiedono di cambiare il nome alla schizofrenia è stato oggetto del questionario pubblicato a dicembre da Schizophrenia Research, insieme a un ampio gruppo comprendente altri pazienti, i loro familiari, e numerosi esponenti della comunità scientifica, della politica e del pubblico generale. In totale sono state intervistate quasi 1.200 persone.

Nel questionario si chiedeva se si ritenesse necessario o meno cambiare il nome alla schizofrenia, e si proponevano nove alternative di nomi più neutri. Tra questi, “disturbo di percezione alterata”, “disturbo di sintonizzazione”, “sindrome di disconnessione”, “disturbo di integrazione” o “disturbo dello spettro della psicosi”. Altre ipotesi proposte da ricercatori favorevoli al cambio del nome sono espressioni come morbo o sindrome “di Bleuler”.

Secondo il 71 per cento delle persone intervistate il termine “schizofrenia” è stigmatizzante, e il 74 per cento si è detto favorevole a sceglierne uno nuovo, anche se nessuno di quelli proposti ha ottenuto una maggioranza netta di preferenze.

Se si decidesse di cambiare nome alla schizofrenia, negli Stati Uniti la decisione spetterebbe alla American Psychiatric Association, la più grande associazione psichiatrica al mondo, che col consenso dei propri esperti dovrebbe inserire il nuovo termine nel suo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (noto anche DSM). In passato è stato fatto – per esempio con alcune forme di disabilità e depressione – ma in questo caso sia la comunità scientifica che gli stessi pazienti sono ben lungi dall’essere d’accordo.

I pazienti che sostengono il cambio della nomenclatura ritengono che possa aiutare a superare i pregiudizi a cui sono sottoposti: «le persone sentono la parola “schizofrenia” e pensano “violento, amorale, sporco”», ha detto al New York Times Linda Larson, che dopo una diagnosi di schizofrenia e svariati tentativi di suicidio, anche grazie alle cure mediche è riuscita a convivere col proprio disturbo, diventando anche una poetessa. I medici, da parte loro, sostengono soprattutto che lo stigma sociale porti a un ritardo nella diagnosi e nelle cure mediche.

Raquelle Mesholam-Gately, psicologa dell’Università di Harvard che ha condotto lo studio sui risultati del questionario, dice infatti che a causa della percezione della malattia alcuni medici esitano nel comunicare le diagnosi, con un conseguente ritardo nell’inizio delle cure. Pur non essendo convinto sul fatto che cambiare il nome possa risolvere il problema, su questo concorda anche William Carpenter, psichiatra dell’Università del Maryland. Che lo stigma legato alla schizofrenia coinvolga anche le stesse strutture mediche che dovrebbero curarla, in generale, è stato oggetto di studi, e ce ne sono alcuni che dicono che nei paesi in cui è stato cambiato il nome alla schizofrenia le diagnosi sono aumentate e l’atteggiamento delle persone verso il disturbo è migliorato (lo studio ha comunque posizioni caute sull’utilità complessiva dell’operazione).

D’altra parte, chi è contrario a cambiare nome alla schizofrenia sostiene che sia un’operazione parzialmente inutile, se non dannosa. Alcuni pazienti temono per esempio che possa complicare le procedure per accedere alle coperture assicurative e agli assegni di invalidità; altri che possa portare a definizioni troppo ampie, col rischio di applicarle anche a persone che non soffrono di questo disturbo; altri pensano semplicemente che il termine “schizofrenia” sia ormai completamente radicato nella cultura e nel linguaggio comuni e non possa essere sostituito.

Lisa Dailey, direttrice del Treatment Advocacy Center, un’organizzazione non profit che si occupa di salute mentale, ha detto: «Il linguaggio è importante, ma il modo migliore per rimuovere lo stigma sulla schizofrenia è sviluppare terapie migliori per sempre più persone».

Per quanto riguarda la comunità scientifica, alcuni ritengono che cambiare l’immaginario collettivo della schizofrenia ed eradicare i pregiudizi e le discriminazioni ad essa legate debba essere un lavoro graduale, che non può prevedere soltanto il cambio del nome. Chi è contrario sostiene anche che cambiare nome alla schizofrenia sia un processo burocraticamente lungo e complesso, e che i risultati potenziali siano così limitati che non vale nemmeno la pena di affrontarlo.

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